POLYMETRON (1881) – latino / italiano AMMINISTRAZIONE
COMUNALE
SPORTELLO LINGUISTICO COMUNALE FONDAZIONE ”GIROLAMO DE RADA
JUNIOR”
SAN COSMO ALBANESE / STRIGARI (COSENZA)
Vinacci (1852-1910) – Trisauro edizioni, Altomonte (CS). Il “POLYMETRON”,
costituito di parti narrative in distici elegiaci e parti liriche in vario
metro, racconta una vicenda d’amore e di vendetta ambientata nella Calabria
della seconda metà dell’Ottocento.
GIOVANNI ANDREA VINACCI
AMMINISTRAZIONE COMUNALE SPORTELLO LINGUISTICO COMUNALE FONDAZIONE “GIROLAMO DE RADA junior”
Edizione del testo latino e traduzione italiana a cura di Vincenzo Belmonte
Finanziato POR CALABRIA - APQ – MEL 2 MISURA 2.2.b
Sono riservati al Comune di San Cosmo Albanese
i diritti che spettano per legge
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In copertina: Costume di San Cosmo Albanese. Incisione acquerellata a mano di E. Duverger, tratta da Usi e costumi di tutti i popoli del mondo di N. Dally, IV, Torino 1847 – riprodotta in I. Elmo, E. Kruta, Ori e costumi degli Albanesi, I, Castrovillari 1996, p. 100.
Foto: Riccardo Baffa (6, 14, 76) – Antonio Mondera (16, 20).
L’emergere dalle nebbie del passato di una figura notevole per cultura e sensibilità non può che rappresentare una piacevole sorpresa. Questa è tanto più grande nel caso di Giovanni Andrea Vinacci, in quanto colui che prima era un puro nome ora ci si rivela personaggio di tutto rispetto, grazie in particolare alla profonda conoscenza del latino che gli permise di esprimere in una lingua così ostica il suo mondo ideale e fantastico e l’amore per la comunità in cui ebbe i natali.
Di questa inattesa scoperta il merito va attribuito a un appassionato cultore degli studi storici, l’avv. Domenico Antonio Cassiano, che ha già ricostruito in maniera ampia e documentata le vicende di San Cosmo Albanese/Strigàri nel corso dei secoli.
Senza tema di smentita posso affermare che il nostro piccolo paese si sta affermando all’interno della minoranza arbëreshe sempre più come una fucina di amanti della poesia, a livello sia popolare che colto e non solo in lingua albanese.
La pubblicazione del poemetto del Vinacci conferma l’attenzione di questa Amministrazione Comunale per tutto ciò che riguarda la cultura, vista come presupposto indispensabile per il reale sviluppo della nostra terra.
San Cosmo Albanese, 1 giugno 2009
Dott. Antonio Mondera
Sindaco Presidente della Fondazione “Girolamo De Rada junior”
Casa natale di Giovanni Andrea Vinacci.
Scarsissime sono le notizie che attualmente possediamo sul poeta. Nacque l’8 maggio 1852 a San Cosmo Albanese dal notaio Vincenzo Vinacci e da Isabella Serembe, allora trentaquattrenne, zia del poeta Giuseppe Serembe. Il padre, che per la partecipazione ai moti antiborbonici del 1848 era stato rinviato a giudizio in contumacia nel 1850 e poi assolto, il 24 agosto 1862, a 38 anni, fu assassinato dai briganti in contrada Motër Mara (Sorella Mara), alle pendici della Crista di Acri. Questo avvenimento segnò per sempre il piccolo Giovanni Andrea, che da allora nel colto zio Demetrio Vinacci (titolare della cattedra di Latino e Greco al “Telesio” di Cosenza) trovò una guida negli studi e nella vita. Diventato a sua volta docente di Lettere classiche, insegnò nei Ginnasi di Corigliano Calabro e San Demetrio Corone. Ai primi di maggio del 1896 fu nominato socio corrispondente dell’Accademia Cosentina. Morì celibe nel paese natale il 7 dicembre 1910.
IL POLYMETRON
Il nome di Giovanni Andrea Vinacci sarebbe rimasto noto unicamente per la dedica, “in memoria affettuosissima”, dell’Elegia da parte del cugino Giuseppe Serembe, se lo storico sancosmitano Domenico Antonio Cassiano nel corso delle sue ricerche non avesse rinvenuto una copia a stampa del presente poemetto1, opera che non compare nemmeno nell’OPAC e la cui unica citazione finora rinvenuta è quella inserita in un volume di Raffaele Lombardi Satriani2.
Ci troviamo evidentemente di fronte a un testo che ebbe
1) Ioannis Andreae Vinacci Polymetron, Tipografia Alessio, Cosenza 1881. Il Cassiano ne dà notizia nel suo noto volume Strigàri. Genesi e sviluppo di una comunità calabro-arbreshe,
Lungro 2004, pp. 359-360. 2) Raffaele Lombardi Satriani, La bontà d’un re e la sventura d’un popolo, Soveria Mannelli 2006, p. 75, nota 67.
scarsa circolazione forse per essere scritto in una lingua morta, accessibile pienamente solo agli studiosi. Va tuttavia notato che comporre versi latini nell’Ottocento era tutt’altro che insolito tra i dotti. Come si sa, il Pascoli presentò numerose composizioni al Certamen poetico Hoeufftiano di Amsterdam, ottenendo più volte la medaglia d’oro. Il primo italiano a vincere il Certamen era stato nel 1845 un calabrese, il reggino Diego Vitrioli, con il poemetto Xiphias sulla pesca del pesce spada.
Il Vinacci dimostra di padroneggiare agevolmente, a meno di trent’anni, l’arduo strumento linguistico, per di più trattando un argomento a lui contemporaneo. Innumerevoli sono i rinvii ai classici, particolarmente a Virgilio, traccia evidente di uno studio appassionato. Il suo limpido latino, privo di cerebrali astrusità, è quasi sempre grammaticalmente e sintatticamente ineccepibile.
Quanto ai criteri dell’edizione, oltre a seguire le indicazioni contenute nell’Errata Corrige, ho eliminato altri errori di stampa o inesattezze di grafia (estremus ?extremus, descrictus ? destrictus, comunis ?communis, lagrymosus ?lacrimosus, Scipidias ?Scipiadas, coecus ?caecus, coelum ?caelum, coelatus ?caelatus, proelum ?prelum, praelium ?proelium, proprior ? propior, dama ?damma, levus ?laevus, effraenus ?effrenus, amenus ?amoenus, charus ?carus, Erynnides ?Erinnydes, Hircanus ?Hyrcanus, Tibris ?Thybris, Iaccus ?Iacchus, Rhetia ?Raetia, exilio ?exsilio, exilium ?exsilium, exul ?exsul, extinguo ?exstinguo, extruo ? exstruo, exurgo ?exsurgo), ho sostituito sistematicamente j con i, ho mutato in i la y di termini come inclytus, lacryma, ocyor, sydus, sylva, Sylvius, tygris. La punteggiatura è stata resa più consona all’uso attuale. A destra del testo viene riportata la numerazione delle pagine dell’originale.
Per “Mantua dives avis” (p. 10, v. 18) il Vinacci rinvia a Eneide IX 201. In realtà il libro è il X.
Per indicare la fine della lavoro del bifolco, l’autore usa un’espressione (“suspendit… aratra iugo”, p. 13, v. 16) che potrebbe sembrare imprecisa o errata, qualora venisse intesa come “attacca l’aratro al giogo”, operazione che si colloca all’inizio della giornata di aratura. Tutto invece appare chiaro se si interpreta correttamente la fonte3. Infatti, come spiega il Wagner4, “quando l’aratro deve essere riportato a casa dai campi, esso viene rovesciato e agganciato all’anello di cuoio [del giogo], in modo tale che il vomere sia incastrato in questo, il timone strisci per terra e la stiva resti in alto, verticale”.
L’autore a p. 20, v. 17, considera tirio (fenicio) Antenore, il mitico fondatore di Padova, che invece era troiano. La confusione poteva nascere da un verso dell’Eneide5 in cui Didone promette l’abolizione di qualsiasi discriminazione tra gli ospiti troiani e i suoi concittadini tirii. Con un ulteriore passaggio i due termini sono stati considerati equivalenti.
Nel vocativo “saeva” (donna crudele) di p. 22, v. 24, mi pare di sentire l’eco del termine albanese corrispondente (“mixore”), assai usato nella poesia popolare e quindi comunissimo a San Cosmo Albanese.
Del verso “Gestiuntque puellae” (p. 31, v. 2) per motivi metrici propongo la correzione in “Gestiuntque puellulae”.
L’individuazione di Garibaldi (III) e delle cinque città dell’Italia settentrionale (IV), da me riportata a margine della traduzione, è introdotta dall’autore in nota ai luoghi corrispondenti.
I titoli dei carmi, posti nell’indice tra parentesi quadre, sono
del curatore.
La novella in versi è ambientata in Calabria, tra il Crati e il Neto. La trama si impernia sul tema della vendetta, frequente nella letteratura calabrese ottocentesca.
Silvio si innamora di Lida, ma deve staccarsene quando gli italiani si levano in armi contro gli austriaci sotto la guida di Vittorio Emanuele II. Resta così lontano dal paese per tre anni. Un rivale respinto da Lida gli fa pervenire la falsa notizia del tradimento. Accecato dalla gelosia, Silvio al ritorno uccide la
3) Virgilio, Bucoliche, II 66: aratra iugo referunt suspensa iuvenci. 4) Leopold Max Wagner, La vita rustica, Nuoro 1996, p. 103. 5) Tros Tyriusque mihi nullo discrimine agetur, I 574.
ragazza e si dà alla macchia, commettendo mille nefandezze fino a diventare capo di una banda di briganti. Sopravvissuto a stento a un attacco delle forze regolari, si rifugia dal padre che, riconosciutolo, gli rivela l’innocenza di Lida. Furioso per la scoperta, Silvio assassina il rivale e ne incendia la casa e i campi. Accerchiato, si toglie la vita lanciandosi da una rupe.
Il titolo Polymetron indica genericamente una composizione in vario metro. Esso quindi non fa alcun riferimento al contenuto. Questo è invece indicato dal sottotitolo italiano “Novella d’amore e di vendetta”, dovuto al curatore. Il poemetto consta di 838 versi, suddivisi in otto carmi (nuclei narrativi) seguiti ciascuno da un’ode (brano lirico). I carmi sono in distici elegiaci (esametro + pentametro), mentre nelle parti liriche l’autore si cimenta in vari metri rintracciabili principalmente in Orazio.
Le odi spezzano e concludono il tessuto narrativo, svolgendo talora un ruolo simile a quello dei cori della tragedia greca. Abbiamo in successione l’invito agli zefiri a conciliare il sonno a Lida, il canto alla Vergine innalzato dalle fanciulle, la serenata d’addio di Silvio, l’apostrofe a Lida esanime, l’esortazione di Silvio agli altri briganti a bere e ad affrontare la battaglia, la meravigliata descrizione della fiera, il rimprovero rivolto a Silvio che ha appena bruciato la casa e i campi del rivale, l’epigrafe rievocante i tratti salienti della vicenda di Silvio e terminante con una “sententia”. In tal modo le odi diversificano ed elevano il tono, esprimendo in maniera più aperta e diretta oltre che con efficace afflato poetico i sentimenti e le convinzioni dell’autore. La novella è pervasa di poesia anche nelle parti narrative. Le descrizioni della sera (I), del bosco silano (V), della grotta con la statua dell’Immacolata (VI), dell’incontro di Silvio col padre (VII), dell’autunno (VIII), dell’ultima battaglia e del suicidio di Silvio (VIII), il ricordo del padre assassinato (V), l’immagine di Lida che in sogno fa sgorgare il sangue dalla ferita (VIII) lasciano il segno. Ma è nelle similitudini che, a mio parere, il Vinacci riesce a dare prove più che convincenti di originalità fantastica ed espressiva. Citiamo la tempesta (I), l’incendio (III),
il volo del nibbio (IV), il lupo in fuga (VI), il fratricida per errore (VII), il leone furioso (VIII), il lupo accerchiato (VIII), l’albero che precipita a valle (VIII).
Questa storia di morte e distruzione si prestava a una resa truculenta, sulla scia del peggiore byronismo, ma l’educazione classica del Vinacci sa evitare il pericolo, consentendogli di preservare un mirabile equilibrio, senza mai cadere nei facili effetti di maniera.
Nella novella l’autore manifesta chiaramente il suo atteggiamento patriottico esaltando le lotte per l’indipendenza italiana e idealizzando le figure di Vittorio Emanuele II e Garibaldi.
Comprensibilmente, considera il brigantaggio, di cui il padre fu vittima, come un fenomeno delinquenziale, senza indagarne le cause sociali: “L’infelice mio padre nel fiore degli anni e delle speranze venne da siffatta gente iniqua rapito alla famiglia ed alla patria, dopo avere alla sua volta combattuto per la libertà che ora godiamo” (p. 25, v. 27, nota). Storie di briganti abbondano nella letteratura calabrese dell’Ottocento, da Domenico Mauro, Vincenzo Padula e Biagio Miraglia a Nicola Misasi. In ambito arbëresh è emblematico il caso dell’Emira di Francesco Antonio Santori, dove vengono narrate le imprese di un gruppo di briganti e la loro fucilazione da parte dei soldati di Pietro Fumel in contrada Quartarone a Santa Caterina Albanese (Picilìa).
Ciò che conferisce alla novella un peculiare valore antropologico, ben colto da Raffaele Lombardi Satriani, è la descrizione delle usanze e credenze popolari che l’autore nell’introduzione qualifica come calabresi: la festa della Madonna e in particolare il banchetto, le danze, lo stendardo e l’abbigliamento femminile (II), la vita dei briganti (V), la leggenda del ritrovamento dell’immagine dell’Immacolata, il santuario con gli ex voto e la fiera (VI), l’eremita custode del santuario (VII), la sgranatura del mais (VIII).
Chiunque abbia una certa dimestichezza con le usanze e i racconti popolari di San Cosmo Albanese avverte tuttavia che, al di là della genericità calabrese, il Vinacci descrive l’ambiente del paese natale, con lievi modifiche imposte dalla ratio poëtica e dalla destinazione dell’opera. Allora si intende come, quanto alla festa religiosa, egli abbia preferito, per evitare un eccessivo
localismo, sostituire a quello dei SS. Cosma e Damiano il culto universale della Madonna.
La leggenda del ritrovamento riecheggia una tradizione popolare secondo la quale un pastore avrebbe visto brillare di notte una luce in un fitto roveto e il giorno seguente vi avrebbe rinvenuto le statue dei SS. Medici. Queste, trasferite nella chiesa parrocchiale, sarebbero miracolosamente tornate nel luogo precedente, facendo intendere che lì doveva essere costruito il santuario, per le cui travi furono addirittura utilizzati i rovi, evidentemente di uno spessore straordinario.
La meraviglia per la folla accalcata e per la fiera, che parrebbe esagerata in relazione a un paesino, è spiegabile col fatto che nei giorni della festa di settembre affluivano (e affluiscono) al santuario migliaia di pellegrini da tutto il circondario. I balli popolari improvvisati davanti al luogo sacro sono oggi gli stessi di una volta.
Inoltre, raccontavano gli anziani che nelle feste religiose lo stendardo fu portato per le vie del paese, spesso retto sulla fronte
o sui denti, fino a quando i fili elettrici non ne resero impossibile il passaggio in posizione verticale.
La presenza in loco dei briganti non ha bisogno di ulteriori conferme. Essi si nascondevano nel bosco comunale Pìlëri. Nel carme VII Silvio uscendo dal bosco per arrivare alla casa del custode percorre un tratto scosceso. È la puntuale descrizione del tragitto dal bosco suddetto al santuario.
La figura dell’eremita custode richiama il ricordo di un tale Attilio (Autilli in albanese) che svolgeva questo compito nell’Ottocento, vivendo di elemosine e dando a sua volta ospitalità e aiuto a chi ne avesse bisogno. Di questo santo eremita si narra che una notte fu costretto dai briganti a consegnare le corone dei Santi. Poco dopo, al ponte di Cola Vecchio i banditi, intercettati
dalle forze dell’ordine, furono uccisi e le corone restituite.
Con questo poemetto Giovanni Andrea Vinacci ci restituisce
un quadro delizioso e credibile della “Old Calabria”, quadro
che, assumendo oggi ai nostri occhi con la distanza temporale la dimensione del fiabesco, fa risaltare ancor più le doti artistiche dell’autore e il suo profondo legame con la terra natale.
Vincenzo Belmonte
Atto di nascita di Giovanni Andrea Vinacci.
La Serra Crista di Acri (m 1124). In contrada Motër Mara il 24 agosto 1862 il notaio Vincenzo Vinacci, padre del poeta, fu assassinato dai briganti.
A Demetrio Vinacci, professore
Cosenza
Queste poche ed umili pagine che or dubbioso avventuro alla vita sono a voi anzitutto dovute. Foste voi che per primo m’iniziaste negli studi classici; e che alle cure amorevoli di maestro aggiungeste quelle, più dolci e soavi, di padre, ché sin dalla tenera età mi fu rapito il padre mio!
Coltivando siffatti studi, mi è parso adempire un dovere verso di voi, rendermi non indegno di quello scolastico apostolato, per cui da quarant’anni voi militate, e la vostra cara e buona immagine paterna mi è venuta ognora sorridente e confortante al pensiero, non osante qualsiasi lontananza. Ecco perché nelle ore di ozio dopo la scuola mi è stato tanto grato ritornare a quei libri che mi ricordano la parte più bella della mia giovinezza ed i palpiti de’ miei più nobili affetti. Tanto certe memorie hanno possa su di noi!
Ora, s’egli è vero che un modesto segno esterno basta spesso a rivelare i più fervidi moti del cuore, voi accettateli questi poveri versi. Essi in un certo tacito linguaggio vi diranno che, s’io vi debbo tanto di gratitudine e di affetto, non ho già dimenticato né dimenticherò mai i vostri consigli, i vostri benefizi. Ciascuno nel suo cuore sa trovarsi un modo proprio per rendere onore ai cari. Io per ora ho scelto questo: accontentatevene. Così si renderanno palesi agli altri l’affetto, la stima e la gratitudine del
devoto nipote e discepolo vostro
Giovanni Andrea Vinacci
Corigliano Calabro, aprile 1881
Il Santuario dei Santi Cosma e Damiano visto dal campanile della chiesa parrocchiale.
Ha la vita calabrese parecchi momenti degni di considerazione e che ne affermano il carattere. Io, questa volta, ho tentato di rappresentare alcuni di quelli, come, nella vita pubblica, l’amore alla patria e le credenze religiose, specie del popolino; e, nella vita privata, l’amore ardente e la gelosia per la bella calabrese, così sovente causa di sangue e di rovina. Oltracciò, a questi fatti ho aggiunto, qui e colà, delle descrizioni di luogo, come delle Sile, eterne per gli alti pini e le nevi continue, e di altre scene campestri e di costumi.
Oggi poi ch’è tanto fervida gara tra una eletta schiera di giovani calabresi in illustrare le cose di casa nostra, a somiglianza di parecchi di altre provincie, che come il Bernoni ed il Guastella si sono ingegnati a dare vividi e schietti i sentimenti, i giuochi, i canti, le leggende, gli usi del loro popolo; mi gode l’animo di aver toccato di tale argomento. Ognuno dee pagare il suo debito al proprio paese.
Dissi tra me e me: “Se le cose di noi altri son degne di menzione come quelle di altro popolo che si ha una storia, perché non tentare di riprodurle in una lingua antica? Chi sa che la maestà della madre non rifugga dall’adombrare i vezzi della diletta figlia sua”.
Si dice comunemente che un pensiero italiano va di necessità scritto in lingua italiana, ma non mi par tutto vero. Quando il pensiero è pensiero, sia qualunque la parola onde si rivesta, purché gli sia conveniente, nulla perde della sua sublimità. È come leggiadra fanciulla, la quale e tra la semplice gonna del contado e tra la pomposa veste della città conserva sempre la sua bellezza. Anzi per quella naturale ragione per cui nella madre deve essere maggiore gravità che nella figlia, nelle lingue madri si trova non so che di più maestoso. Né con ciò oserei asserire che la lingua di Dante, del Petrarca, dell’Ariosto, del Tasso e di mille altri sommi autori manca di gravità, espressione ed armonia. Piuttosto ne abbonda a preferenza delle altre, perché queste sono fattezze ch’ella ereditò dal seno che l’ha concepita. L’Alighieri, chi nol sa, diceva a Virgilio:
Tu se’ il mio maestro e il mio autore, tu se’ solo colui da cui io tolsi
lo bello stile che m’ha fatto onore.
Alla sua volta il cantor della pietà d’Enea altrettanto avrebbe ripetuto, se incontrata avesse l’ombra del gran cantor dell’ira d’Achille.
Né questo solo m’indusse alla prova. Fu altresì il desiderio d’ispirare a’ nostri giovani simpatia per quella lingua ch’è loro tanto in odio e nondimeno tanto necessaria. Ricordo loro le memorande parole del Giusti nella lettera a Giovannino Piacentino. “Non ti sgomenti lo studio della lingua latina che ti sarà utilissima se non altro per conoscere meglio la tua. Vedi: io stesso quand’ero in collegio m’impazientivo di volermi lambiccare il cervello tante ore colla grammatica del Porretti. Ora mi dispiace di non averlo fatto quanto bisognava, non per la smania di fare il latinista, ma per servirmene di aiuto e studiando e scrivendo. E ti dico apertamente che poi in seguito ho dovuto durare fatica al doppio per impararla da me alla meglio tanto da intendere un libro. Rifletti che questo è uno studio che devi farlo ad ogni modo”.
E però a meglio riuscire in questo divisamento ho tentato ogni specie di metro. La mia novelletta è divisa, direi così, in otto carmi. A ciascuno segue un’ode di metro diverso, in modo che, tolta quest’aggiunta, il concetto rimane intiero. Sono come dissonanze che si risolvono nell’armonia principale.
Ecco dunque ciò che mi ho prefisso in questi versi. Se sia o no riuscito non è dato a me, certamente, giudicare. Mi piace solo aver dimostrato che se per arte e per ingegno sono pur troppo lungi dagli altri che onorano questa terra natale, non è così almeno per l’amore che debbo a lei. Tengo per fermo che quando non si vuol bene di cuore alla madre, alla terra che ci vide nascere, non si può, no, amare la patria. Ed io con questo segno di affetto alla Calabria ho tacitamente inteso fare tant’altro per l’Italia. Rotte le dighe del regionalismo e di quant’altra delizia ci aveva regalato il bastone straniero, il sole della libertà ci ha resi tutti fratelli, perché tutti italiani. Ché se andiam curiosi leggendo e narrando i fatti intimi di questo o di quell’altro popolo nostrano, gli è appunto perché con la reciproca conoscenza di noi stessi possiamo ristabilire più salde e durature le basi della grande famiglia italiana.
Lettore, vorrai tu apprezzare la novelletta da questo lato? Ebbene, loderai l’intenzione, se non l’opera.
Atto di morte di Giovanni Andrea Vinacci.
Palazzo De Rada, sede della Fondazione omonima.
I
Pallida nox alto diffundere sidera caelo 9 Undique iam properat; coerula tuta cubant. Excelsum turtur nidum gemebunda revisit Inque cava metuens rupe columba sedet. Integrat in silva carmen philomela sonorum Ingemit et scopulo sordida noctis avis.
Dissiliunt liquidi maiore et murmure fontes,
Annosa et quercus brachia curvat iners. Contrahit alas nocturno de flamine lassa Densoque ex saltu mobilis aura fugit. Solane tu placida nec laxas membra quiete Nec tibi somnus adhuc lumina moesta domat! Vere novo primae mutantur in arbore frondes, Tractim et gemmatis floribus arva virent. At dolor, infelix, tibi pronos crescit in annos, 10 Ulla nec exhilarant gaudia corda tua! Incompto iamdudum humeros perfusa capillo, Tristia continuo fletibus ora rigas.
Fidae nec matris, modo quae dolet, oscula mulcent,
Flectere nec possunt mollia verba patris. Magno cur motu penitus suspiria tanta Nocte trahis sera? Denique quidne petis? Silvius infesta, fors nescis?, pugnat in ora Terrificumque tubae percipit aure sonum. Quot celebres terras, ventosa per aequora vectus, Urbes quot magnas, flumina quotque videt! Mincius hinc viridi praetextus arundine ripam, Hinc praeceps Athesis populiferque Padus. Praerupti hinc circum sublimi vertice montes Hisque iuga aeterna sub nive tecta latent. Et Benacus ibi, fluctu strepituque marino Assurgens, et ibi Mantua dives avis. Italiam quamvis longo molimine tutam,
Di pallide stelle s’affretta la notte a cospargere 9
il cielo profondo; riposano|sicure le azzurre distese.
Tubando riviene la tortora all’alto suo nido,
in cava rupe s’acquatta l’accorta colomba. L’usignolo nel bosco rinnova il gorgheggio sonoro e sulla roccia si querula l’infame uccello notturno. Con più limpido murmure sgorgan le chiare sorgenti,
immota la quercia ricurva le annose sue braccia.
Stanca del soffio notturno, le ali ripiega
la mobile aura e s’invola dal monte selvoso.
Solo tu non rilassi in placida quiete le membra né il sonno ancora ti doma gli occhi dolenti! Rigenera la primavera le fronde dell’albero, esplode nei campi un rigoglio di fiori gemmati. Per te, misera, aumenta il dolore con gli anni fuggenti. 10 Non c’è gioia che allegri il tuo cuore. Con la chioma scomposta, da tempo sugli òmeri sciolta, righi d’incontenibile pianto il malinconico volto. Della fida madre accorata non ti consolano i baci né ti posson piegare le dolci parole del padre. Perché in turbamento dall’intimo tanti sospiri effondi nel cuor della notte? Alla fine, che cosa ricerchi? Silvio combatte – forse lo ignori? – in ostile contrada, ne percuote l’orecchio terribile tuono di tromba. Quante celebri terre, trasportato per acque battute dai venti, quante grandi città, quanti fiumi egli vede! Il Mincio è di qui con la sponda segnata di verdi canneti, di qui l’Adige precipitoso e il Po costeggiato di pioppi. Intorno qui ripidi monti con vette elevate, i cui gioghi nega alla vista una coltre di nevi perenni. Ivi è il lago di Garda, che un flutto sonante, degno del mare, solleva; lì è Mantova, ricca di illustri antenati. L’Italia, quantunque sicura grazie a lunghissimo impegno,
Totius orbis enim praesidium atque decus, Hunnorum turba et flavo gens proxima Rheno, Invasere graves Poeoniique feri. Ingenti irruerant numero hi nostrasque tenentes Urbes devictis iussa superba dabant. Utque in agris possent vastatis esse quieti, Subdita munierant quadruplici arce loca. Tam longa Italici tantaque tyrannide moesti, Certant magnanimi rumpere vincla suis. Conferto en audax Victorius agmine princeps,
Obstricto in turmas ense retorquet equum.
Invicti et magni non immemor ille parentis Gentisque haud spernit fervida vota suae. Ora puer prima signans intonsa iuventa, Regalis sequitur grandia gesta domus. Armaque tractare et rigidi certamina Martis, Spumantes vel equos huic fuit unus amor!
Nullo se tellus tantum iactabit alumno,
Rebus nec dubiis firmior ulla salus. Virtutis patriae quantum! Quantum instar in illo! More patrisque tenet non leve regis onus. Sceptro nunc heros posito nitidaque corona, Arma manu praefert, contegit aere caput. Qualis quum tacitum Boreas exasperat aequor, Pinos et quercus tectaque rapta trahit, Diffugiunt nebulae et scissae per inane feruntur Praepetibusque alis aethere aguntur aves; Haud secus adgreditur densum Victorius hostem, Tanta in se virtus iraque tanta coit! Utque vident trepidi gradientem et dira frementem, Horribili vertunt hispida terga metu. Ille micans auro cristaque hirsutus equina, Urget cedentes insequiturque minax.
Tardos invadit cursu lateque coruscans Terret fulmineo mucro nitore citos.
presidio e decoro del mondo, l’orda degli ungari e il popolo al biondo Reno contiguo crudeli la invasero e anche i feroci boemi. Entrati a valanga, occupando le nostre città, comandi superbi impartivano ai vinti. Per esser sicuri nei campi predati, di quattro fortezze avevan munito i luoghi soggetti. E gl’italiani, afflitti da lunga e pesante tirannide, gareggian magnanimi per infranger da sé le catene. Raccolto l’esercito, ecco, Vittorio, il principe audace, sguaìna la spada e contro le torme sprona il destriero. Memore egli del grande invincibile padre, non spregia i fervidi voti del popolo suo. Ragazzo cui segna le gote la prima peluria, continua le imprese gloriose di casa reale. Il suo diletto fu sempre avere a che fare con armi, con prove di Marte spietato e con cavalli sbavanti. Mai così fiera la terra sarà d’alcun altro suo figlio né c’è salvezza più ferma negli aspri frangenti. Che imponente figura! In lui che prodezza paterna! Sull’orme del padre regge lo scettro non lieve. Ora l’eroe, deposte le insegne e la fulgente corona, brandisce le armi, si scherma di bronzo la testa. Come, quando aquilone le acque sconvolge, pini e querce trascina e tetti divelti, le nebbie si sfanno e squarciate si sperdon nel vuoto e uccelli dall’ali veloci son tratti per l’aria; non altrimenti assale Vittorio le fitte schiere nemiche, tanto valore raduna in sé, tanto sdegno. E come, tremanti, avanzare lo vedono e il grido levare, voltano, in fuga atterrita, le spalle villose. Egli, fulgido d’oro, ondeggiando l’equino pennacchio, incalza l’esercito in rotta e torvo lo insegue. Assale correndo i più lenti, e la spada, brillando in largo, atterrisce i veloci col lampo del fulmine.
Seu rex seu dux, sic omnes supereminet ille,
Foetus ut teneros roboris alta cedrus.
Silvius oblongum vagina hic eripit ensem, Agmen et in medium provolat actus equo. Haud ulli est comitum virtute secundus avetque Pro patria extremum fortis obire diem. Mox veniet, veniet. Mitte hanc de pectore curam, Sed minime, heu!, minime, Lida, redisse voles!
* * *
Luctum demite pectore, Somnos huc leviter ducite candidos,
Moerentis iuvenis tamen,
Sereni zephyri, vos miserescite. Noctu saepe vagantia, Quae formis animum tristibus asperant
Ac ventura dolentibus
Interdum referunt, pellite somnia. Heu, si praescia nunc mali, Cauta quaeque latent mente revolveret! Heu, si denique cerneret Infestae horrificam sortis imaginem! At vos flamine protinus Obsit quod miserae ferte per aëra,
Mollis sitque quies velut
Infantis, genitrix quem fovet in sinu Nec lenire caput manu, Blando nec gemitum carmine desinit. O vos qui iuga Raetia Transitis, zephyri, tot gemitus graves,
Lidae tot lacrimas modo Dilecto nimium dicite Silvio.
Che sia re, che sia duce, di tanto egli tutti sovrasta come il cedro eminente i teneri getti di rovere. Qui snuda Silvio la spada bislunga, vola in mezzo alla zuffa a cavallo. A nessuno è secondo e desidera da prode affrontare la morte, alla patria immolato. Verrà, verrà presto. Via, togli dal cuore l’assillo.
Poi, Lida, vorrai non averlo veduto tornare.
Levate dal petto l’inquietudine,
lievemente recate i sonni candidi
e la giovane triste,
o zefiri sereni, compatite. Il sogno scacciate che sovente vaga di notte, che con orribili figure esaspera l’animo e a volte eventi futuri rivela agli afflitti. Oh, se, consapevole ora del male, cauta intuisse ciò che occulta l’ombra! Oh, se scorgesse alla fine l’orrida immagine della sorte ostile. Voi con un soffio all’istante nell’aria sperdete
quanto alla misera nuoce.
Dolce il riposo le sia, come al bimbo che la madre riscalda nel grembo,
a cui tra carezze la ninnananna sussurra.
Venti che i gioghi valicate di Rezia, i dolorosi gemiti
di Lida conducete, le sue lacrime,
a Silvio, così caro a lei.
I I
Virginis augustae festum sollemne recurrit, 13 Turribus aera sacris aere repulsa sonant. Murmure iam certant crepitantia tympana rauco,
Vallis circum, mons infremit atque nemus.
Iamque fugacis ovis blandaeque oblita capellae, Nunc stridore replet rustica avena domos. Virginis en simulacrum aedis sub limine primo: Pectora pulsantur, flectitur omne genu. Serica vexillum velamina pandit in auras, Urget turba virum mobile nuda caput. Convenit huc agris tectisque effusa paternis Pubes, suadet enim currere pompa sacra. Illam namque diem solidam inter gaudia degit, Corpora tam longo fracta labore levans. Sole sub occiduo, excussa iam pulvere putris Glebae, suspendit deses aratra iugo
Pastosque inde boves intra stabula ante refecta
Colligit et pecudem setigeramque suem. Prandia per noctem vigilans aut curat abunde,
Vestes aut nitidas instruit arte nova.
Versae ceu magno segetis saepe aggere structo, Umbras si tremulas messor anhelus adit,
Accurrunt una celeres tractimque columbae
-Nam timidas stimulat tum malesuada fames -,
Alto haec de scopulo, quo late prospicit anceps, Quercu haec, qua nidum progeniemque fovet; Haud secus hi vario festini tramite pergunt, Quum primum Eois Lucifer exit aquis. Nunc capita angustis nigrisque undantia vittis, 14 Nunc folia inter abhinc candida lina patent. Matres atque viri, pueri innuptaeque puellae, Confertum agmen idem, sed pede, carpit iter. Finitimi ex pagis fidique vocantur amici,
Ricorre la festa solenne della Vergine augusta. 13 Campane percosse rimbombano da sacre torri, con rauco suono i tamburelli a gara già crepitano,
fremono monte, foresta e vallata all’intorno.
Immemore già della pecora pavida e della mite capretta, il rustico flauto riempie le case di stridule note. Della Vergine ecco, alla soglia del tempio, la statua: si piega il ginocchio, si batte il petto. Alla brezza lo stendardo il suo drappo di seta distende, s’accalca la turba degli uomini e scopre ed inchina la testa. Qui, sciamando dai campi e dai tetti paterni, si adunano i giovani forti, li affascina la processione. Tutto il giorno trascorrono in mezzo agli spassi per dare sollievo alle membra spossate da lunga fatica. Al tramonto, la vigilia, scuotendo la polvere della friabile zolla, smesso il lavoro, sospendono al giogo l’aratro, le stalle racconciano e i buoi governati vi adunano e così pure il gregge e la scrofa di setole irta. Vegliando la notte o lauti pranzi preparano
o vesti eleganti si foggian con arte novella. Come spesso, ammucchiati i covoni,
se il mietitore ansimante varca le tremule ombre, accorrono insieme e man mano veloci colombe
-pur timide, infatti, le spinge la fame che male consiglia -, questa da rupe elevata, onde spazia lo sguardo, quella da quercia, ove scalda coi piccoli il nido; non altrimenti i villani per vari sentieri s’avviano, quando al mattino Lucifero emerge dall’acque orientali. Ora si scorgono teste con neri nastri ondulanti 14 e di qui tra le foglie candide vesti intravedi. Madri e mariti, ragazzi e fanciulle inesperte di nozze, tutta la schiera riunita a piedi s’avvia. Dai villaggi gli amici fedeli e i vicini si invitano,
Quique nec a festo stirpe propinquus abest. Agresti atque humili sed honesto splendida cultu Ornantur prima ac interiora domus. Tum late medioque parant convivia tecto, Adsunt et circum proxima quisque tenet. Moxque dapes onerant mensas ac pocula splendent Exundansque replet magna canistra Ceres. Blanda quies primum, tranquilla silentia ubique, Quisque studet cupido pellere dente famem.
Crateras demum statuunt et vina coronant
Largeque exhilarant tristia corda mero. Magnus tum strepitus, tum dulcia verba salutis Alternis donant accipiuntque simul. Exempta ergo fame, pateris mensaque remota, Molles quot ludi, gaudia quanta manent! Ad numerum pars crura movet nutantia, grato Quippe cibo et vino satque superque gravis. Fausta canens una pars tollit ad astra fragorem,
Vocibus et raucis excita tecta sonant.
Tunc risus, tunc et plausus fremitusque virorum, Qualem iam scenae plebe favente darent. Praecedunt agiles iuvenes puerique iocosi, Hos sequitur lento sed pede turba senum. Hic salit et miscet revolutas arte choreas, Grata sermonum ast hic vice verba serit. Est qui procerum vexillum, in vertice quondam Celsi quod montis pinus odora fuit, Exercet magno in gyro vacuum aëra circum, Saepe ut torto sub verbere turbo volat, Aut ponit rectum dura sub fronte revulsa,
Dentibus aut nitidis sustinet acer onus.
Inde puellarum numerosa frequentia, sicut
Candida densantur lilia vere novo,
Flamine quum zephyri iucundo gramina mulcent
Atque comas nutat fontis amica salix.
affine per stirpe nessuno alla festa si nega. Splendidamente, con rustici fregi, ma belli,
decoran la fronte e le stanze dell’umile casa.
Al chiuso s’appresta il banchetto e lì fuori, s’assidono e attorno ciascuno si tiene i suoi cari. Già sono ingombre di cibo le mense, i bicchieri scintillano, dovizia di pane ricolma i capienti canestri.
Una calma distesa all’inizio, ovunque tranquilli silenzi:
ognuno si sforza di espeller la fame con dente bramoso. Dispongono infine le coppe, incoronano i vini e bevendo a bigonce ridestano i cuori abbattuti. Allora gran strepito, allora piacevoli brindisi l’uno offre all’altro e riceve. Saziata la fame e tolte le coppe e le mense, che giochi, che svaghi gradevoli avanzano! Ritmicamente un gruppetto muove le gambe oscillanti, più del dovuto gravato di vino gustoso. Non manca chi ben augurando leva il canto alle stelle e le case risuonano scosse da voci arrochite. Allora il riso, l’applauso e il fremer dei maschi, quale antichi teatri e la plebe acclamante darebbero. Giovani snelli e ragazzi giocosi precedono, a passo lento li segue la frotta dei vecchi.
Saltando costui danze intreccia ritorte con arte,
ma un altro con grata alternanza intesse discorsi. C’è chi il lungo stendardo, già pino fragrante sulla vetta di monte elevato, brandeggia in ampio giro all’intorno per l’aria spaziosa
- come spesso la trottola vola per colpo di filo ritorto -,
Tortilibus nodis glomeratos arte capillos Ignea circum humeros serica fusa premunt. Auribus haec rutilos teneris aptavit inaures Tinnitumque gradu dant properante levem. Pendent huic tereti baccata monilia collo, Ut niveo sparsi palmite rore botri. Lactea purpureo sub tegmine pectora turgent, Bina hic, cruda tamen, pendula poma latent. Horrent ceu zephyris impulsae leniter undae Et blando fremitu littora curva petunt,
Vestes sic roseae subnexaeque ilia circum
Undantes simili desuper orbe fluunt.
Interdum ut mites liquida inter nubila cycni
Vocales dant per lenia colla modos, Foeminea incedens forma pulcherrima pubes Dulce sic integro fudit ab ore melos.
Salve, sancta Parens, inclita virginum Virgo. Te celebrant undique supplices, Trino unique supremo Dilectam penitus Deo.
Valde tu sapiens, munifica et potens, Regis mater enim qui movet omnia, Tu prorsus maculae expers, Nostros at gemitus doles.
Tu bellum lacrimosum et miseram famem
Pestemque a populo et sanguine regio, Dulcis Virgo, repelle, Nostris et precibus fave.
I capelli, raccolti con arte in tortili nodi, premuti tengon nastri scarlatti di seta cadenti sugli òmeri. Appese costei ai teneri lobi brillanti orecchini che danno un lieve tintinno se il passo si affretta. Pendono a questa dal collo tornito, ornati di perle, i monili, come grappoli, aspersi di nivea rugiada, dal tralcio. Sotto veli purpurei sta turgido il candido seno, qui si celano, acerbi, due penduli pomi. Come lievi s’increspan le onde sospinte dal vento e tendono blande fremendo alle prode ricurve, così le vesti di rosa, ai fianchi succinte, da sopra ondeggianti con simile moto si volvono. Come talora i placidi cigni tra limpide nuvole soavi effondono note da morbide gole, così lo stuolo virgineo d’aspetto leggiadro avanzando da caste labbra dispiega una dolce canzone.
Ave, santa Madre, Vergine inclita tra le vergini. A te dovunque i supplici inneggiano, cara nell’intimo a Dio supremo, uno e trino.
Tu savia, munifica e potente, come madre del re che tutto muove.
Tu immacolata,
ma compartecipe dei nostri gemiti.
La guerra funesta e la misera fame e la peste dal popolo e dalla stirpe reale tu, dolce Vergine, storna, accogli le nostre preghiere.
Virtus sit iuvenum praesidium et decus, Communis patriae maximus atque amor. Castae sunto puellae,
Fidae et sollicitae matres.
Veram laetitiam da quoque cordibus
Intersisque diu gentibus Italis.
Esto dulce levamen
Aegris atque dolentibus.
I I I
Qualis gemma micans, viridi spectabilis aevo, Silvius et valido corpore firmus erat. Compositum crinem cervix alta accipit atque Deiectus circum tempora sponte fluit. Lumina, sicut saepe solent, in amore serena, Ignea quum rabies effera corda ciet. Et capite et sublimi humero supereminet omnes, Pronus ad iram, acer propositique tenax. Viribus ac animo tum sic praestantior ille Ut nullo subeat magna pericla metu. Sacra forte die iuvenem conspexerat hincque Ignem conceptum pectore Lida fovet. Olli nigri oculi splendebant sideris instar, Nigro sed vivo pulchra nitore coma. Effusus toto formoso corpore candor Cycnis integrior Sithoniaque nive. Marmore Mygdonio frons multo laevior ipso. Floribus ornabat prima iuventa genas. Tantus et oris honos et risus gratia tanta,
Inter uti rubrae lilia cana rosae.
La virtù sia presidio e decoro dei giovani, sconfinato l’amore per la patria comune, le fanciulle pudiche, premurose le madri e fedeli.
Dona anche ai cuori la letizia vera, assisti a lungo le genti d’Italia,
tu dolce sollievo
per sofferenti ed infermi.
Fulgido al pari di gemma, mirabile per gioventù, era Silvio compatto per taglia robusta. Copre l’alta cervice la chioma curata che alle tempie spontanea s’increspa. Sereni, se ama, son gli occhi, il che di solito accade, accesi però, se sdegno furioso gli pungola il cuore. Pronto all’ira, energico e fisso all’intento, per la testa e le alte sue spalle sovrasta ciascuno. A tal punto prestante per forza e coraggio da correre impavido pericoli estremi. Lida in un giorno di festa lo vide e da allora nel petto la fiamma sprizzata fomenta. A lui gli occhi neri brillavano al pari di stella, seducenti i capelli dal nero vivace splendore. Diffuso pel corpo leggiadro, più puro dei cigni
e della neve di Tracia svelava il candore.
Più levigata la fronte che marmo migdonio; la prima peluria fiorente gli ornava le gote. Della bocca era tanta la grazia e l’incanto del riso, come a candidi gigli frammiste vermiglie le rose.
Incessusque levis, pes verum passibus ales, More citae huc illuc exsilientis avis. Silvius haud minus ardenti flagrabat amore, Ambo aetate pares, igne pari ambo calent. Oh, quoties vario relevant sermone laborem, Alternis quoties praebet uterque fidem! Talia connubia haud horrent ipsique parentes Coniugioque satis debita quaeque parant. Heu, quam saepe tamen tutos spes ludit amantes! Quum minus exspectant, saeva procella furit. Instantis signum belli dat buccina rauca, Omnibus effrenus concutit ossa furor. Certatim Italici sese exhortantur in arma, Hunc decus accendit, corporis huncque vigor, Hunc atavi celebres, hunc claris dextera factis, Terrae hic natalis tristia damna dolet. Est vir qui tardos animis audacibus implet Et iuvenum stimulo pectora vertit acri. Libertatis amans patriaque eiectus ab ora, Ignota dudum constitit exsul humo. Belliger audax, consilii iam providus auctor, Saevos in reges seditione potens, Impatiensque morae, exsilio quoque pube coacta, Concurrit Thetidos quo Siculae unda strepit. Mille viri tantum destricto hunc ense sequuntur, Terrae sed patriae quemque peredit honor. Immugit fervens abruptis Aetna cavernis Vesevusque sonum sponte citoque refert. Tota dein frendens commota Calabria surgit, Imbelli et regi ferrea sceptra trahit. Insequitur simili felix Campania bello, Daunia et exardens, Tuscia dives agro. Coeruleus Thybris vicinaque Thybridis arva
«Arma, viri,» clamant «arma referte, viri». Tum Brutum et Graccos, Drusos fortemque Camillum,
Il passo era lieve, il piede nel correre alato a guisa d’uccello veloce che salta qua e là. D’amore non meno infuocato bruciava. Eran pari di fiamma rovente e d’età. Oh, quante volte prendon riposo parlando, oh, quante volte si giurano fede a vicenda! I genitori acconsentono al loro legame e per le nozze apparecchiano quanto si deve. Ma come inganna sovente speranza gli amanti sicuri! All’improvviso imperversa procella selvaggia. La rauca tromba diffonde segnale di guerra imminente, squassa a tutti furore sfrenato le ossa. A gara si esortan gl’italici a prender le armi: uno lo accende il decoro, un altro il vigore del corpo, questi gli illustri antenati o la destra per nobili imprese, più d’uno dei danni inflitti alla patria si duole. C’è un uomo che infonde audace coraggio ai più vili, che in baldo con cuspide aguzza ogni cuore tramuta. Dalla terra dei padri scacciato per libero spirito, vive proscritto da tempo in estrania contrada. [Garibaldi] Audace guerriero, già provvido ispiratore, all’auge in quanto ribelle ai feroci tiranni, impaziente d’indugi, adunati anche i giovani esuli, corre là dove infuria il frangente del siculo mare. A spada tratta in mille lo seguono, avvampa amor patrio in ciascuno. Mugge l’Etna rovente nelle caverne precipiti, il Vesuvio di contro riecheggia il boato. Torva l’intera Calabria fra torbidi insorge, lo scettro di ferro sottrae al re pusillanime. La Campania felice tien dietro in simile guerra e la Daunia assolata e la Tuscia opima di fondi. Il cerulo Tevere grida coi campi contigui: «Le armi, guerrieri, le armi, guerrieri, portate!». Bruto allora ed i Gracchi, i Drusi ed il forte Camillo,
Tum Paulum et Decios Fabriciumque gravem, Marcellum et Scauros, hirto Curiumque capillo, Fulmina Mavortis Scipiadasque duo, Iamque senile caput placido ostentare sepulcro, Versare et circum lumina torva procul. Haud firmo pavidi solio tremuere tyranni, Tecta fuga est miseris una pudenda salus. Excita ventoso veluti quum turbine flamma,
Paulum quae viridi condita fronde latet,
Erumpit tollitque globos et sidera lambit Pressaque iam vento permeat omne nemus. Nunc huc, nunc illuc se circum stridula flectit Expanditque magis fusa magisque comas Nec minus illa fremens et viribus effera saevis Nulla circumstat utpote lege vagans. Fraxineaeque trabes ardent et fissile robur, Scintillant, nedum capta rubeta crepant. Italiam in totam belli sic funditur horrens
Clamor, vox belli reddita ubique sonat.
Quis verum tanto communi obstaret amori? Silvius ipse lubens currit ad arma cito. Tempus erat. Terram nox atra involverat umbra Fessaque mulcebat pectora amica quies.
Silvius excessurus adit tum limina Lidae, Diceret ut moesto carmine triste vale.
Praecipitat caelo nox humida concitatque abire Clangor tubarum patriaeque nomen. Virgo, postremum moestum hoc vale, voce quod dolenti Tibi remittit mox iturus, audi. Alta mente reposta manebis. Te geram usque mecum. Vivam aut cadam, te diligens amabo.
Paolo coi Deci e il serio Fabrizio,
Marcello e gli Scauri e Curio dall’ispida chioma e l’uno e l’altro Scipione, fulmini veri di Marte,
dalla tomba sollevan la testa canuta,
sguardi all’intorno minaci da lungi volgendo. Spauriti tremarono sul trono malfermo i tiranni, è turpe salvezza a quei vili la fuga guardinga. Come quando, eccitata da turbine cieco, la fiamma, che velo celava dapprima di tenera fronda, erompe e le vampe solleva a lambire le stelle e investe, dal vento sospinta, ogni selva. Or di qua, ora di là crepitando all’intorno si piega, ed espande, diffusa, di più le sue chiome e non meno fremente e selvaggia per forze crudeli si dirama vagando al di fuori di ogni confine.
Ardono i frassini e il rovere facile a fendersi,
scintilla e più sfrigola il pruno abbrancato. Così l’orrendo clamore trapassa ogni lembo d’Italia, il grido di guerra per tutto echeggiando risuona. Cuore chi avrebbe di opporsi allo slancio comune?
Corre Silvio entusiasta alle armi.
Era tempo. Ombra cupa notturna la terra avvolgeva e i petti stanchi blandiva la quiete gradita. Sul punto d’avviarsi andò Silvio alla casa di Lida per darle il triste commiato in malinconiche note.
Piomba dal cielo l’umida notte, e ci affretta ad andare clangore di trombe e il grido d’“Italia!”.
Ascolta, fanciulla, il mesto ultimo addio
che ti porge con voce dolente chi sta per partire. Serrata starai nella mente, compagna di viaggio. Che viva o cada, io ti amerò con passione.
Saepe auris tradam suspiria. Dummodo fidelis, Leni haec susurro iam tibi renarrent. Dulcis imago micans oculis tua me levem ferumque Truces in hostes acrius ciebit. Assidue hoc vale pectore serva. Laetus et triumphans
Lauri revertar ramulo decorus.
Ara sacra excipiet nos tandem corde gestientes Iunctisque dextris. Oh, nimis beati!...
I V
Ter viridi fuerant ornati gramine campi, Ter concrerat aquas frigore bruma pigra. Evius explerat ter Massica prela racemis, Horrea ter large frugibus alma Ceres. Nec minor Italicis bellandi prima cupido,
Priscae virtutis non minor ardor erat.
Eripiunt hosti summo conamine tandem Oppida quaeque tenet more subacta suo. Voti compos iamque suos Oenotria fines Possidet, haud ulli praetereunda loca. Salve, gente potens, rerum cui copia multa, Vatum et magnorum prospera alumna virum. Salve, bellatrix ingens, priscae aemula Romae,
Terris quae late, quae dominaris aquis. Tuque ducis Libyci turbas mirata cruentas,
Immitem et pugnam, multa strepente lacu. Tuque decus Lari, iam parva colonia quondam,
Aedibus, o felix, nunc memoranda sacris.
Quid tibi nunc dicam, Tritonidis inclita sedes? Victa quidem, at perstant integra iura tibi. Fortis ubi Tyrii generosi Antenoris ossa
Affiderò spesso ai venti i sospiri. Se resti fedele, ogni cosa con lieve sussurro raccontino a te. Correrò, balenandomi agli occhi il tuo mite sembiante, più svelto e spietato contro il selvaggio nemico. Conserva per sempre nel petto l’addio: in festoso trionfo ritornerò decorato di ramo d’alloro.
Saliremo l’altare, col cuore esultante
e con le destre congiunte. Oh, troppo felici!...
I campi tre volte erba verde aveva abbellito, tre volte il pigro inverno l’acqua rappreso col freddo. Bacco tre volte di grappoli aveva i màssici torchi colmato e di messi copiose i granai l’alma Cerere. Non era scemato agli italici il primo ardore di guerra, non era la fiamma men viva della virtù primigenia. Finalmente con sforzo supremo al nemico ritolgono ogni città che teneva soggetta a suo modo. Come bramava, l’Italia dei suoi confini è signora, luogo che a tutti varcare è negato. Tu salve, potente per popolo, tu doviziosa di beni, [Milano] prospera figlia di vati e d’uomini illustri. Salve, prode guerriera, di Roma antica rivale, [Venezia] che ampiamente su terre e su mari governi. E tu che del punico duce vedesti le truppe crudeli [Pavia] e l’accanita battaglia, mentre il lago mugghiava. Tu, decoro del Lario, minuscola un tempo colonia, [Como] ora, o beata, mirabile per i tuoi templi. Come ti loderò, della dotta Minerva dimora famosa? [Padova] Sì, fosti vinta, ma integre restan le regole tue del diritto. Tu, dove l’ossa del nobile Antenore, il tirio possente,
Terra fatali nuda sepulta iacent. Mantua, quid referam? Tibi quid, vicina Cremona? Quidve boni tandem, dulcia quaeve loquar? Salvete, oppida diro olim subiecta tyranno, Morem nunc patrium, nunc leve fertis onus. Omnibus Italiam Deus ipse replevit abunde, Alpibus et sepsit tergeminoque mari, Excelso ut solio populisque verenda sederet,
Esset uti felix ac domina una sui.
Oh, qualis fragor! Oh, qualis sonat undique plausus! Quidne novi aut magni gaudia tanta ferunt? En rex, ut Titan rutilans qui surgit ab unda, En coniux, Phoebi ceu rubicunda soror, En dux et princeps vultuque insignis et aevo, Fulgenti ut noctu sidera bina polo. Festini primum fidi videre Sicani, Vidit mox Calaber, Daunius ipse volens. Alpina ab rupe ad summum Siculumque Pachynum Tuscisque ex oris Hadriae ad usque sinum Itala gens una plaudit dextraque revincta Integrat aeternum foedera pacta recens. Interea Lidam nec adit qui certa reportet Nec tamen, utque solet, Silvius ipse monet. Acceptae quondam fidei secura tenaxque, Haud umquam tenero fervet amore minus. Vicini immo spe reditus vehementior ardor, Torrens ut placido flamine pruna viget. Attamen est quidam vultu nummisque superbus Tantam qui retur rumpere posse fidem.
Saxo ceu frustra sectatus milvus ab alto
Discindit liquidum ex aëre lapsus iter Infestaque specus tutum circumvolat ala, Pumice quo scrupeo pressa columba latet;
Non secus ille domi rurique insistit ubique,
Silvio at usque suo Lida fidelis erat.
giacciono nude sepolte in terra fatale. Mantova, a te che dirò? E a te, vicina Cremona? Che cosa di bello dirò finalmente, che amabili encomi? Salve, o città già soggette a crudele tiranno, ora al patrio costume, un peso leggero. Dio stesso all’Italia ogni bene profuse e dell’Alpi la cinse e di un triplice mare, perché alta sul trono sedesse, onorata dai popoli, felice e sola padrona di sé. Oh, che fragore, che applauso per tutto risuona! Tanta gioia a che nuovo e magnifico evento prelude? Ecco il re, rutilante Titano che sorge dall’onda, e la sposa regale, rubiconda sorella di Apollo. Ecco il duca ed il principe insigne per volto ed età, coppia d’astri notturni nel cielo stellato. Accorsero in fretta a vederli per primi i fedeli sicani,
quindi i bruzi ed i dauni non malvolentieri.
Dall’Alpe rocciosa all’estremo Pachino in Sicilia, dalle coste tirreniche al mare di Adria, acclama l’italica gente e con una stretta di mano i patti in eterno rinnova da poco sanciti. Intanto da Lida non va chi notizie le rechi sicure né, come al solito, Silvio ne invia. Ferma e salda nel giuramento d’amore, mai brucia meno di tenero affetto. Anzi avvampa l’ardore se spera vicino il ritorno, come brace rovente s’arrossa per placido soffio. Purtroppo c’è un tale, superbo di volto e di beni, che pensa d’infrangere un vincolo tanto tenace.
Come nibbio, deluso da inutile caccia, dal vertice eccelso
per l’aria limpida scivola, tramite insolito aprendo, e spavaldo con ala pugnace la grotta sorvola che occulta colomba, al riparo di pietra porosa; non altrimenti egli a casa e in campagna ovunque la incalza,
ma fedele era Lida al suo Silvio.
Occidis, virgo, similis nitenti, Heu!, rosae pulchrae, quam Aquilo reclinat, Dira vel grando, viola rosaque Pulchrior ipsa.
Quo refers circum teneros ocellos
Quidve adhuc anceps moriens requiris? Fugit atrox qui potuit puellam Caedere fidam.
Sed tibi primus superest amoris Ardor occultus, minus haud amoena Efferi in temet iuvenis cruenta Tristis imago.
Siste post tantos animi labores, Nunc adi dulcem requiem sepulcri. Quot iacent illic nimium fidelis Vota puellae!
Tu modo, ceu fellis egens columba, Virgo iam celso residens Olympo, Ne vaces instans veniam precari.
Parce furenti.
V
Decurrit flavus montano flumine Crathis Arvaque luteola subdita inundat aqua. Declives prisci ripas tenuere coloni. Virtus multa viris, semper agreste genus. Silvaque frondescens postrema cacumina condit
Tu cadi, vergine, simile, ahi, alla bella splendida rosa che la tramontana reclina
o la grandine fiera; certo più bella che viola o rosa.
Dove volgi all’intorno gli occhi tremanti? Che cosa ancora, dubbiosa, morendo richiedi? Fugge l’infame che ardì svenare
una fanciulla fedele.
Ma in te la fiamma prima sopravvive segreta dell’amore e, non meno amabile, la triste immagine cruenta del giovane contro di te spietato.
Riposa dopo tanti travagli dell’animo, raggiungi la placida quiete del sepolcro. Quanti sogni là giacciono di giovane troppo leale.
Tu, come ingenua benevola colomba, vergine che già dimori in cielo, persevera nel chiedere perdono: non colpire quel folle.
Il biondo Crati fluisce con acque scorrenti dai monti e i campi più bassi allaga di melma. Tennero antichi coloni le rive declivi, gente di molto valore, sempre dedita ai campi.
La selva frondosa nasconde le cime elevate, Indomitasque ubivis occulit alta feras.
Frigus iners, frutici sic terra negata tenello, Ramos ut numquam mitia poma gravent. Nodosa ast ilex ornusque rigore notanda Multiplici et fagus prole referta sua Perpetuis umbris loca circum cuncta retexunt. Horrendum visu! Tegmine triste nemus! Urget utrimque tamen vallis medioque fragosum Dat sonitum flumen nec breve, quippe Netus. Iucundos nutrit limoso hic gurgite pisces Vicinumque tumens irrigat amnis agrum. Montes quum incipiunt molli descendere clivo, Planities viridi gramine laeta patet. Hic aestate nova pulchre flavescit arista, Floribus hic late coerula lina nitent Arbuteique virent foetus montanaque fraga, Mora rubent, ingens unde redundat odor. Cornigera hic errare vides armenta per amplam Luxuriem herbarum, hic candida balat ovis. Caseus hinc pressus, nivei ac sat copia lactis, Discolor hinc grato lana colore micans. Mugitusque ciens iam prima in proelia taurus, Pulvere commoto cornibus astra petit. Saltibus in vacuis cito post vestigia matris Optatae trepidans parvulus hinnit equus.
Rebus quam multis loca deliciisque referta,
Si tuta essent aut insidiosa minus! Erumpunt hinc crudeles persaepe latrones, Impasta ut caeco bellua clausa specu, Captosque aut pretio bellantum more remittunt,
Erranti aut tradunt membra resecta cani.
Barbara gens, auri cupida, atro sanguine foeda, Ne pendat poenas invia lustra petit. Sedem iam patriam dulcesque perosa penates,
Datque ducem sibi, sed iussa scelesta duci.
alta celando per tutto indomite belve. Il freddo raggela, la terra i teneri arbusti rifiuta, tanto che mai miti pomi gravano i rami. Ma il leccio nodoso e l’inflessibile orno e il faggio abbondante di fitti virgulti in largo ricoprono i luoghi di ombre perpetue. Terrificante a vedersi! Lugubre, tetro bosco! Da entrambe le parti corre stretta una valle e nel mezzo un fiume rintrona non breve: è il Neto, s’intende. Nei gorghi fangosi alimenta i pesci giocondi e ingrossandosi irriga le zolle vicine. Là dove i monti digradano in lieve declivio, una pianura si stende ferace di erbe. Qui bella d’estate biondeggia la spiga novella, occhieggiano fiori tra i ceruli lini. Qui traggono forza corbezzole e fragole proprie dei monti, rosseggiano more onde emana profumo. Qui vedi armenti cornuti errare per l’ampio rigoglio dell’erbe, qui bela la candida pecora. Qui cacio pressato e profluvio di latte bianchissimo, di qui variopinta la lana, brillante di grato colore. E il toro che mugghia verso la prima battaglia, con le corna, smuovendo la polvere, punta le stelle. Nei pascoli immensi appresso alla madre bramata trepidante nitrisce il cavallino indifeso. Luoghi ricolmi di beni e delizie molteplici, se fossero in tutto sicuri o meno insidiosi. Sbucano spesso dai boschi crudeli briganti come bestie affamate rinchiuse in cieca spelonca e i rapiti rilasciano, come i militi, dietro riscatto
o consegnan a un cane randagio le membra recise. Gente barbara, cupida d’oro, sporca di sangue, sfuggendo alle pene s’addentra in impervi ripari. Preso in odio il paese natale e la dolce dimora, si dà un capo e costui impartisce comandi funesti.
Nil sibi inausum umquam noctuque diuque vaganti,
Nil est insuetum criminis atque doli.
Effera, vindictae stimulata cupidine saeva, Messes nunc urit, nunc pecus omne necat. Horrida forma viris, cervix habitusque superbus,
Acrior at vultus terribilisque minis.
Surgit crinito, galeae instar, vertice conus, Serica quo temere cingula longa cadunt. Rusticus atque niger pannus, rudi arte decorus, Auratis globulis pectora lata premit. Poplite nexa femur perstringit densaque bracca, Hinc gladii capulus curvus utrimque micat. Duri praecingunt sic pinguia crura cothurni Ut properante gemat terra repulsa gradu. Dummodo tuti sint, humero suspensa sinistro, Ignea dant acrem tela retorta sonum. Neve dolo aut turba simul excipiantur inermes,
Non stabilis sedes, non mora certa diu.
Pressi clamorem dant auditoque repente Concurrunt signo, nota tenentque loca. Heu, pater, heu, iuvenis crudeli morte peremptus! Heu, misero nato flebilis usque tuo! Magna tibi virtus studium magnumque tuorum. Quem inveniet pietas integritasque parem? Quanta tibi spes olim! Quanta mihi, alme, parabas, Quot soboli et patriae quantaque mente sagax! Magnanimosque celer quondam tu sponte secutus, Tentasti oppressis turpe levare iugum. Tigribus Hyrcanis stirps et crudelior ipsis Talem ergo potuit perdere saeva patrem!
Tertius annus erat quo saltu Silvius atro
Abdiderat sese. Heu, terque quaterque miser! Nec reputat tandem mala, demens!, quanta patravit, Dedecoris quantum postea seque manet. Oblitus patriae primique oblitus honoris,
Mai niente è inosabile ad essa che vaga di giorno e di notte, non c’è crimine o inganno che insolito sia. Crudele, premuta da brama selvaggia di prender vendetta, ora brucia le messi, ora abbatte il bestiame. Hanno orribile aspetto, portamento superbo, ma più duro il volto, spaventevole, torvo. Un cono in punta chiomato portano a guisa di elmo, con lunghi nastri di seta che penzolano. Rustica e nera, la giacca, decorata con rozzo mestiere, stringe il petto: bottoni dorati la fermano. Un’ampia braca serra al polpaccio la gamba, curva l’elsa ai due fianchi riluce. Così duri calzari le pingui gambe gli avvolgono che geme la terra colpita dal passo affrettato. In luogo sicuro, appesi alla spalla sinistra, emettono acuto tintinno i tromboni a scavezzo.
A scanso di insidie mortali o assalti di massa,
non hanno stabile sede, non sostano a lungo. Sotto attacco, al segnale d’un grido in un attimo accorrono ai posti assegnati. Oh, mio giovane padre, estinto da mano crudele, sempre lacrime avrai dal tuo misero figlio. Gran valore era in te, grande cura dei tuoi. A te pari per devozione e virtù chi fu mai? Che speranze! Quante cose per me con la mente sagace apprestavi amoroso, per la prole e la patria! Entusiasta volontario, seguendo gli eroi t’adoprasti a levare l’ignobile giogo agli oppressi. Genìa più crudele che tigri d’Ircania, malvagia, un tale padre osò spegnere! Eran tre anni da che in cupa selva Silvio s’era occultato. Oh, misero tre, quattro volte! Non reputa abiette, follia!, le infamie che pèrpetra e l’onta che eterna rimane. Della patria dimentico e dell’onore dei giorni
Pugnas quum dubias acer inibat eques, Nonne brevi scelerum formas expleverit omnes, Civibus invisus, mox gravis ipse sibi? Praedonum turba numerosa exceptus et ille Vastabat praedo saevus ubique loca. Mille pericla tamen duros et mille labores Pertulerat gnavus, semper ad arma celer. Idcirco socii regemque ducemque reposcunt. Rex demum et princeps, non minus acer erat. Iam iam conveniunt diversi namque erat hora Undique tum parto membra levare cibo. Cespitibus mensam circa quisque exstruit altam Gramineoque solo corpora fusa iacent. Postquam exempta fames amor et compressus edendi, En canis et trepidans virque timore stupens. Pervigil assiduo urgebat latratibus hostes Insidiasque sagax ille docebat herum. Omnia sublimi hic lustrabat vertice circum,
Somno dum reliqui lumina fessa dabant.
Is narrat magnam iam iam adventasse catervam Quae cito nunc totum pergit obire nemus. Silvius extemplo surgens hortatur amicos, Circum terque refert pocula plena mero.
Pellite nunc, socii, nunc curas pellite vino, Cuique vigor nunc crescat Iaccho. Adveniant hostes magno numero. Anne timetis, O fortes peioraque passi? Sunt multi, at trepido ceu dammae corde paventes. Nos pauci, sed plurima virtus. Aerato, heu miseri!, muro nos undique censent Marmoreo aut hic aggere septos.
in cui cavaliere gagliardo lottava in incerte battaglie, non avrebbe provato ogni sorta di crimine in breve, odioso alla gente a lui nota, molesto a se stesso? E intanto, prescelto fra numerosi briganti, devastava, crudele predone, i paraggi. A mille pericoli invero, a mille duri travagli aveva saputo far fronte, proclive alle armi e scattante. Quindi i compagni lo acclamano re e condottiero. Re e principe, infine, non era nel male da meno. Da luoghi diversi si adunano, ecco, per tutti era l’ora di dar sollievo alle membra con procurate vivande. Ciascuno si foggia con zolle una mensa e la banda giace nella radura, distesa. Saziata la fame e appagata la voglia di cibo, vedon giungere un cane ansimante, un uomo atterrito. Vigile il primo incalzava latrando i nemici ed accorto svelava al padrone le insidie. Mentre gli altri affidavano al sonno gli occhi fiaccati,
costui da un’altura scrutava i dintorni.
Racconta che già numeroso drappello s’appressa stringendo la selva d’assedio. Silvio, subito in piedi, rincuora gli amici e tre coppe serve in giro ricolme di vino.
Scacciate, compagni, scacciate col vino i pensieri, con Bacco si accresca a ciascuno il vigore. Vengano a torme i nemici. Per caso tremate voi forti che avete vissuto più duri frangenti? Son molti, ma pavidi, dal cuore di daino tremante. Noi pochi, ma eccelso è il nostro valore. Quei miseri, stretti ci credon da muro di bronzo
o da marmoreo bastione.
Sed vix per silvam noster iam fulserit ensis, Diffugient timidi ocius aura.
Omnes unanimi, tentis ad sidera dextris,
Iuramus mare, sidera, terram! Pellite nunc, socii, terrorem pellite vino, Mox omnes in utrumque parati, Seu versare dolos hostemque exstinguere ferro
Seu certae succumbere morti.
V I
Erumpunt silva, concurritur illico utrimque, Exanima utrimque et corpora multa cadunt. Haud incerta diu pendet victoria, namque,
Occisis sociis, Silvius unus adest.
Qualis, detracta praeda, atra percitus ira Festinansque petit trux nemora alta lupus Et fugiens torquet flammantia lumina retro Infestumque canem dente minatur acri; Sic animum, sic ille caput, sic ora ferebat,
Dira sic rabie fervida corda tument.
Contectus tenebris immane refugit in antrum. Sidit, mox surgit, perstrepit atque gemit. Inde regressus tunc tota sub nocte vagatur Occultamque anceps itque reditque viam. Credunt (nec vero pietatis amore negamus)
Foetam olim stabulum destituisse bovem,
Cedentis tractim custodem signa secutum Perlustrasse agri condita quaeque diu, Inde reverti moerentem ne forte vagando
Obvia crudeli sit laniata fera.
Flexo vix cursu, mugitus personat ingens, Ma, come nel bosco vedranno la spada brillare, fuggiranno sgomenti, più ratti del turbine.
Tendendo alla volta del cielo le mani, a una voce
sul mare giuriamo e le stelle e la terra. Scacciate, compagni, scacciate col vino il terrore, disposti a qualsiasi destino, a usare ogni inganno e col ferro stroncare il nemico
o a cedere a morte sicura.
Balzano fuori dal bosco, da entrambe le parti si accorre, da entrambe le parti esanimi cadono i corpi. La vittoria non pencola incerta. Alla fine, non scampa alla strage che Silvio. Come, da rabbia eccitato per preda sottrattagli, in fretta il lupo feroce si volge alla fitta foresta, torce all’indietro, fuggendo, gli occhi fiammanti e con dente affilato minaccia il cane aggressivo; così egli l’animo, il capo, il volto atteggiava, così d’ira tremenda spumeggia il cuore convulso. Col favor della notte in un antro immane s’appiatta, si siede, poi s’alza, strepita e geme. Sui passi ritorna a vagare per tutta la notte, su e giù per segreto sentiero si muove dubbioso. Si crede (e non oso per devozione negarlo) che un giorno una gravida mucca lasciò la sua stalla, e il bovaro, seguendo man mano le tracce di lei che vagava, a lungo esplorò le zone remote dei campi; poi si voltava avvilito, temendo che forse, imbattutasi
in belva crudele, ne fosse stata sbranata.
Dopo un passo risuona muggito sonoro,
Nocturna ac totum contegit umbra nemus Incertoque pede ille errat, formidine mutus, Abdita sed repetit splendidiorque dies. Oh, quid maius miranti tunc protinus adstat! Umbroso circum palmite septa specus. Pallentes hederae tereti cum fornice frondem Flectunt et late pendula bacca micat. Virginis in medio veneranda illustris imago, Aut superum aut priscae mirificum artis opus! Septem stant circum fulgentes tempora stellae, Nigra fluit turgens, ceu levis unda, coma. Lactea gemmato redimuntur colla monili, Flavo abdunt pectus lintea tincta croco. Desuper incurva ad gremium sua brachia tendit Coniunctasque manus more precantis habet. Candida vestis, quam signant passim astra corusca, Molliter ex toto corpore torta ruit. Nube leves humeros sublimis amicta decenter, Multa sol oriens imbuit ora rosa. Serpentem super oppressum pede nixa triumphat,
Laeta orci saevi iam domuisse ducem.
Ille furens volvit sublato pectore terga Tentans, si possit, solvere grande caput. Ingenti at magnae victricis mole represso Igne micant oculi, faux nigra turget hians. Tum, rabie caecus, lingua micat ore trisulca, Horrida squamoso sibila datque sinu. Tendit utrimque nova exsurgens sua cornua luna, Gaudens sub tenerum scamna dedisse pedem, Centum ac aligeri sublimi ex aethere lapsi Certatim manibus florea serta gerunt. Arboris ingentis magnum curvantur in arcum
Rami arcteque tenent aedis utrumque latus
Defenduntque simul quum torridus aestuat aër Quumque riget cano frigida bruma gelu.
mentre l’ombra nel bosco dilaga. Con piede incerto va, muto, atterrito, ma un giorno celato risorge e più bello. Portento mirabile appare! Una grotta recinta da vite ombreggiante. Le pallide edere in curva armoniosa ripiegano le fronde ed in largo riluce la pendula bacca. Della Vergine insigne nel mezzo è l’immagine sacra, opera eccelsa degli angeli o d’arte oggi ignota. Sette fulgide stelle le attorniano il capo, la chioma corvina le ondula al vento. Cinge il candido collo gemmato monile, lini tinti di giallo le coprono il petto. China al grembo le braccia curvate, tiene giunte le mani in preghiera. La bianca veste, trapunta di astri corruschi, con ampio drappeggio scivola giù per il corpo. Sta in alto, ha le spalle leggere soffuse di nitida nube, il sole sorgente colora di rosa il suo volto. Trionfa schiacciando col piede il serpente premuto, lieta d’aver già domato il duce dell’orrido inferno. Leva esso il petto, furioso, inarca la schiena, tentando se può liberare la testa massiccia. Ma, oppresso dal peso gravoso di lei che lo vinse, sprizza fuoco dagli occhi, rigonfia le fauci infernali. Cieco allora di rabbia, balena nel ceffo con trifida lingua e sibili orrendi dal seno squamoso produce.
Protende i suoi corni la luna nuova levante,
paga di far da puntello al tenero piede, e cento angeli scesi dal cielo superno a gara portano in mano corone di fiori. In arco imponente si curvano i rami di un albero immenso ed ammantano i lati allo speco onde proteggerlo, se l’aria avvampa o se gela per candido ghiaccio l’inverno.
Gestiuntque puellulae.
Creta dat cava sibilos,
Picta tympana murmurant. «Hic, viri, nova serica!» Conclamat procul institor. «Hic et aurea pendula Ac corusca monilia! En tibi omnia suavia! Quidquid est pretiosius Hic minoris. O, currite!». Quanta ubique frequentia! Quanta et undique copia!
V I I
Non procul a templo tectum fuligine nigrum, Custodis parva, ast inviolata domus. Silvius huc tendit praerupto tramite, sperans
Illa se tutum denique nocte fore. Multa suadent iamdudum labentia somnos Sidera iucundos, undique cuncta silent.
Lenius adspirans iam silvam commovet aura Fusoque hic illic murmure moesta gemit.
Accedit tacitus, sed mox auditur ab imo Vox, quae et securo fortia membra quatit.
Stat vero dubius tentatque reducere passum, Portarum at querulus cardo repente strepit. Ecce senex hic, cruda tamen viridisque senecta: Nulla genas nempe ruga senilis arat. Inque manu laeva piceum dat fumida taeda Lumen, sed baculum tortile dextra premit. Turgida descendit tunicae manica atraque vestis
Ilia circumfert fune retorta rudi.
fanciulle tripudiano al suono
d’ocarine ed al murmure
di tamburelli dipinti. «Qui, gente, roba nuova di seta!» il rivendugliolo strilla. «Qui pendagli dorati e scintillanti monili! Ecco la merce gradita! Tutto ciò ch’è pregiato do a buon mercato, accorrete!». Che folla dovunque, che merce dovunque a cataste!
Non lungi dal tempio v’è un tetto fuligginoso, casetta inviolabile del vecchio custode. Qui Silvio lungo chine scoscese si volge, sperando di pernottare al sicuro. Le innumeri stelle al tramonto consigliano sonni giocondi, non senti chiurlare l’assiolo. Agita il vento, più lene spirando, la selva che in ampio brusio qua e là geme mesta.
S’accosta furtivo, ma subito s’ode dal fondo una voce
da scuoter le membra robuste anche ad uno tranquillo. Sta incerto, tentato d’andarsene. A un tratto il querulo cardine cigola. Arzillo ad onta degli anni ecco il vecchio: ruga senile non c’è che le guance gli solchi. Nella sinistra una fiaccola fumigante dà luce di resina, ma preme la destra il bastone ricurvo. Della tonaca scura scende larga la manica. Il saio cinge i fianchi serrato da rustica fune.
Sat leni igne micant oculi involvitque profusa Mentum, dein pectus plurima barba rigat. Nocturna impulsos flectit retro aura capillos, Unde olli maior frontis et oris honos. Invitat blande. Transmisso limine primo, Excita mox resonat passibus arcta domus. Silvius it comes atque silens vestigia figit
Praesentitque animo nescio quidve novi.
Advenit incumbensque solo exstinctum excitat ignem Multaque post confert arida ligna foco. Exiguam et dapibus mensam secus instruit, illum Silvius at placide ponere stansque vetat. Cessat et annoso residens in stipite querno
Olli tum dulci talia voce serit:
«Hora sic tacita quo pergere tendis, amice? Nescisne, o, nescis quae loca solus adis? Caede rubent turpi, sunt omnia plena cruore, Innocua et tanti foemina causa mali! O virgo infelix, crudeli funere mersa, Intemerata tibi quam fuit usque fides! Ipse ego te audivi, mortis pallore refuso, “Silvi,” reclamantem “ Silvi, repente veni!”. Dulci me nato... proh!.. sed tu invita privasti. Germanae ille tuae, non tibi sponsus erat. Cor tenerum tibi, cor firmum uno ardebat amore:
Silvius in terra, Silvius unus amor».
Ut qui saepe inter taciturna silentia noctis Interitum latitans insidiasque parat, Audito strepitu seu captus imagine falsa,
Arcu mox tenso noxia tela iacit.
Haud fugit, haud spirat, sed frontem attollit et aurem, Hauriat ut fletus iam morientis ovans. Caesus dat gemitum, tunc non hominem ille molestum, Ipsa sed fratrem voce ferisse videt. Attonitus manet, immotus, quasi fulmine tactus.
Di mite fuoco balenano gli occhi, la barba il mento avviluppa, cala fluente sul petto. Investe l’aura notturna i capelli e li piega all’indietro, scoprendo un più nobile onore di viso e di fronte. Lo invita cortese. Varcata la soglia, l’angusta dimora risuona destata dai passi. Silvio sta dietro e, seguendo le orme in silenzio, qualcosa di nuovo presente nell’animo ignaro. Egli arriva: chinato riaccende la fiamma sopita, molta arida legna sul focolare accatasta. È pronto ad offrire una mensa di esigue vivande, ma Silvio, in piedi, con belle maniere si oppone. Si ferma e, su annoso ceppo di quercia seduto, a lui si rivolge con dolce loquela: «In così tacita ora dove intendi recarti? Amico, non sai quali luoghi da solo attraversi? Son rossi di turpe massacro, impregnati di sangue:
s’addita a motivo una donna innocente.
Sciagurata fanciulla, pur casta e fedele, in barbaro modo finita! Io stesso ti udii, mentre già si effondeva pallore di morte, invocare: “Su, Silvio, affrettati, Silvio!”. Inconsapevole, il figlio adorato mi hai tolto, a tua sorella promesso, a te no, per vero.
Quel saldo tenero cuore d’un fuoco solo bruciava:
Silvio al mondo per te era l’unico amore». Come colui che sovente in occulto fra tacite ombre
trama insidie mortali,
se ode rumore o parvenza lo illude, scaglia con l’arco ben teso letali saette. Non fugge, né spira, ma leva la fronte e l’orecchio, per cogliere cupido il pianto di lui che vien meno. Poi geme il ferito e la voce gli svela morente non uomo molesto, ma il proprio fratello. Attonito, immoto rimane, quasi tocco da fulmine, muto,
Edere nec questum, nec lacrimare valet.
Non aliter primum moesti tum verba parentis Intenta aure capit Silvius ora tenens. Demum se prosternit humi victusque dolore Constringit manibus languida crura seni. «Lidam egomet...» clamat «tibi ego...», singultus at illi Praecludit vocem aut rumpit in ore sonum. Horrescitque senex fugiensque repellere tentat, At iuvenis perstat, maior eique vigor. Tot lacrimis tandem motus, trepidantia tendit Brachia ploranti, fatur et inde gemens: «Multa quidem, infelix, patrasti crimina multa, Sed Deus ignoscat: te ipse fefellit amor. Nox abit ista. Patri paulum permitte dolenti.
Lectulus en is, adi lassaque membra leva».
Silvius haud renuit, sed tristia mente volutat: Ulcisci statuit, iam ira cruenta flagrat. Utque senem vidit placidum somnoque gravatum, Surgit, suspenso digrediturque gradu. Imminet illius tetrae pars ultima noctis, Lucifer et roseos axe iugarat equos. Forte colebat agrum ruri, macularat amantis Lidae qui falsa suspicione fidem. Silvius advolat, adgreditur frustraque precantem Enecat atque furens instruit igne manum. Rustica tum domus, armentum pecudesque fugaces, Frugibus accensis fortius ardet ager. Crine fugit passo, formidine tracta ruinae, Gestans, heu!, mater pignora cara sinu. Nudi diffugiunt pueri matremque secuti
Plorantes, clamor dissonus astra ferit.
Omnia miscentur gemitu miseroque tumultu Quisque pavet: facies omnibus una metus. Ocius ille petit silvam, sed fronte superbus, Discerpto ut vitulo dentibus atra fera.
né bagna le gote di pianto. Non altrimenti, col volto fisso, ora Silvio ascolta gli accenti accorati del padre. A terra si prostra e, come il dolore lo vince, tra le mani racchiude le languide gambe del vecchio. «Io, Lida,» grida «a te io…», ma il singhiozzo gli strozza la voce o il suono in bocca gli spezza. Rabbrividisce il vegliardo e lo scosta schermendosi, ma il giovane insiste, lo supera in forza. Commosso alla fine da un fiume di lacrime, a lui che singhiozza tende tremanti le braccia e farfuglia: «Molti davvero, infelice, molti delitti hai commesso, ma Dio ti perdoni: l’amore ti ha fatto sbagliare. Questa notte è alla fine. Asseconda tuo padre dolente. Va’, ecco un letto, solleva le membra spossate». Non dice Silvio di no, ma rimugina tristi disegni, decide vendetta: avvampa già rabbia cruenta. E come il vecchio già placido vede, immerso nel sonno, si alza e la casa abbandona in punta di piedi. L’ultimo lembo su lui della torbida notte incombeva, Lucifero aveva aggiogato i suoi rosei destrieri. Era intento al lavoro in un fondo chi aveva macchiato di Lida amante la fede con falso sospetto.
Là vola Silvio, lo assale, lo fredda
mentre supplica invano, e la furia di fiamma provvede. Arde la rustica casa e l’armento e il timido gregge e, per le messi incendiate, ancora più il campo. Fugge con sciolti i capelli, travolta dalla temuta rovina, la madre portando, ehi, in seno i cari lattanti. Seguono nudi la madre i ragazzi piangendo.
Confuso clamore ferisce le stelle. Gemiti e brividi nel disastroso trambusto:
un unico volto atterrito. Al bosco si volge egli rapido, in fronte superbo, come atra belva che ha dilaniato un vitello.
En ignis fumidas erigit undique Flammas, iam segetes et pecus et domum Involvit strepitans astraque iam petit Venti flatibus excitus.
Tuque, inter patulas abditus ilices, Siccis ergo oculis damna tot aspicis, Tanti nec gemitus pectora commovent, Saeva tigride saevior?
Quin gaudes hilaris. Quid modo vindici Tot patrasse animo crimina proderit? Vitam laetus agis? Numne reviseris Lidae dulcis imaginem?
Heu, flos quem calamo falx scidit improba Haud umquam viridi gramine germinat Nec corpus, gladius quod ferit impius,
Potest inde revivere.
Numquam blanda tibi membra premet quies, Urgent teque ferae semper Erinnydes. Invisus superis, omnibus horridus, Mox poenas meritas lues.
Da ogni lato, ecco, il fuoco vampe fumose leva, già crepitando investe le messi e il gregge e le case, già raggiunge gli astri, eccitato dai soffi del vento.
Tu, nascosto tra gli ampi lecci, guardi tanta catastrofe con occhio indifferente? Lacrime così amare non ti turbano il petto? Sei più selvaggio di selvaggia tigre.
Anzi ti rallegri. A che ti serviranno tanti delitti commessi per vendetta? Esulti forse perché rivedrai presto le sembianze della dolce Lida?
Fiore che falce perfida recide dallo stelo nel prato più non germina, né corpo che la spada empia ferisce in seguito rivive.
Mai blanda pace quieterà le tue membra, sempre ti incalzano le feroci Erinni. Odioso al cielo, a tutti abominevole, presto pagherai la pena meritata.
V I I I
Iam subit autumnus, iam vivida de arbore poma 35
Pendent atque rubens vitibus uva tumet.
Castaneae virides in ramo sponte dehiscunt,
Cultor arat sollers arva serenda bove.
Nubes iamque grues tranant querulae agmine longo. Frigoris impatiens migrat hirundo procul. Carpuntur rubrae tereti culmoque sonoro Spicae, late quas Indica nutrit humus, Congestamque patens post excipit area molem, Igni dum reparet cornua luna novo. Fortes inde sedent pueri teneraeque puellae, Stridenti thyrsos exspoliantque coma. Longis inde viri pulsant sudibusque praeustis, Dent ut quae duro cortice grana tenent. Fervet opus nocte obducta, dein coena paratur Et modico recreant corpora fessa cibo. Exemptaque fame citharam hic, hic tympana quassat, Alterno saliens hic pede pulsat humum. Hic plaudit manibus, laetum fert ille cachinnum, Latrat dum vigilans limine ubique canis. Silvius abrupta moerens tum rupe sedebat: Clamore allectus cesserat ipse specu. Silva viret circum dumosa ac horrida, subter Labentis spumans fluminis unda strepit. Convexo splendent iamdudum sidera caelo Lucinaeque fluens lumina volvit aqua. Venit ei in mentem quum velox currere campum Certabat paribus candidus utque puer; Quum tacitum puro nutribat pectore vulnus, 36 Pulchrae nec Lidae conspicua ora latent; Quum primum iuvenis saevum pugnabat in hostem, Pro patria Martis signa decora sequens. Talia fert animo tum oblitus pene malorum,
Demum blanda subit tristia membra quies.
Ipsa ecce in somnis exstinctae surgit imago, Tollens mirifico pallida more genas. Heu mihi qualis erat! Concreti sanguine crines, Lethali vestis candida tabe madens. Crudescensque manu vulnus tum pandit utraque Atque recens deorsum sanguinis unda fluit. «Insontem occisam fidamque revisere» clamat «Vultu sic laeto non lacrimansque potes? Heu, quo te miserum crimen perduxit acerbum! Non irae, potius causa doloris ades. Quid stas, infelix? Fuge, vae, fuge, quaere salutem! Plus modo quam reris gens inimica premit». Crescere paulatim, propior maiorque videri, Brachia porrigere ut transvehat inde pigrum. Silvius ingemere horrescensque recedere vellet, Corpus iners et faux verba petita negat. Excutitur tandem strepitumque audire videtur Invaditque sibi frigidus ossa tremor. Effert grande caput, ter volvit lumina circum, Auribus arrectis, aëra vixque trahens. Pergit rumor iamque magis maiorque propinquat, Immo per silvam dicta retenta sonant. Sensit tum demum hostilem venisse cohortem
Iamque inter frondes arma corusca videt.
Qualis saepe ferox lassus caedisque viaeque
Dormitum tandem cedit in antra leo.
Venantum si audit per saltum cornua rauca Sive procul latrat fervida turba canum, Emicat ille extemplo, iubam quatit, erigit unguem Seque ciens rabido rugit et ore minax. Silvius haud aliter surgit, capit arma cruenta, Hostibus ignotis obvius itque furens. Nunc hos, nunc illos iam stipite tectus acerno
Plumbo ferventi fulmineoque ferit.
Poi placida calma pervade le membra accasciate. Dell’estinta, ecco, appare l’immagine in sogno: leva, pallida in modo inaudito, le gote. Com’era ridotta! Rappresi di sangue i capelli, la candida veste inzuppata di marcia mortale. Lei slarga, violenta, con ambo le mani la piaga e fiotto ne sgorga bruciante. «Colei che fu uccisa innocente e fedele puoi» grida «rivedere con volto sì lieto e con arido occhio? L’acerbo delitto te misero dove ha condotto! Di pena, non d’ira tu causa dinanzi mi sei. Perché, infelice, ristai? Fuggi, cerca un riparo. Già più di quanto non pensi la gente nemica ti è addosso». S’accresce man mano, vicina più sembra e più grande, protende le braccia per trascinarlo indolente.
Gemere Silvio vorrebbe e rabbrividendo arretrare,
ma il corpo è bloccato e la bocca rifiuta di dire parola. Si ridesta comunque e gli pare uno strepito udire, mentre invade gelato tremore le ossa. Leva il capo massiccio, intorno tre volte riguarda, con le orecchie ben tese, mozzando il respiro. S’avvicina il rumore, appressandosi aumenta, parole sommesse risuonan traverso la selva. Comprende alla fine che è giunta un’ostile brigata, già tra le fronde intravede le armi corrusche. Come spesso orgoglioso, stanco di strage e cammino, torna infine nel covo il leone a dormire,
e rauco corno se ode nel bosco suonare
o latra branco furioso da lungi di cani, la criniera scuotendo esso balza, solleva gli artigli e feroce ruggisce minacce con volto rabbioso. Scatta Silvio ed affronta gli ignoti nemici, armi in pugno, fremendo. Protetto da un tronco di acero, abbatte più d’uno col piombo rovente, fulmineo.
Ceu quum fallacis praedae vestigia sectans, Frustra percurrit condita lustra lupus, Vespere ieiunus mox silva evadit opaca
Mollique in stabulis insidiatur ovi.
Si tamen exciti pastores illico currunt, Hinc voce, hinc saxis, fustibus hincque premunt, Bellua trux ululans confestim irrumpit in omnes, Dente vel insano quemque vel ungue petit. Sic, magno oppressus numero, iam saucius ipse Hostem per medium tentat et ense fugam. Frustra. Quid superest misero? Spes nulla salutis. Aut moriendo animam aut brachia vincta dare. Currit ad extremam rupem, consistit et haeret:
Currentem adsequitur bellica turba cito.
Saltum tunc rapidum dat praeceps, ocior aura, Qua magis et pendens ima vorago patet. Quum glacialis hiems rigidis aquilonibus horret Nimbosusque graves imber inundat agros, Montis saepe iugis avulsa evolvitur arbor, Horrendo secum saxa fragore trahens. Producto reboat gemitu tum concava vallis, Diffugiunt volucres attonitaeque strepunt. Silvius, aëra per vacuum sic pondere raptus, Volvitur inversus ruptaque lympha fremit. Permagno ipsa metu fulgentia sidera pallent, Luna trahit radios, nube repente tegit. Non procul a ripa tumulus consurgit arenae, Desuper et tumulo carmina sculpta nitent.
Come quando, seguendo le tracce di subdola preda, il lupo invano perlustra sperdute contrade, fin che abbandona la tetra foresta al crepuscolo e nelle stalle la morbida pecora insidia. Se destati i pastori lì corrono, e con grida e con sassi e bastoni lo assediano, la truce belva ululando su tutti s’avventa e con le zanne rabbiose e gli artigli li assale. Così egli, ferito, schiacciato dal numero immenso, irrompe, brandendo la spada. Invano. Dispera. Che fare?
O l’anima rende o si lascia condurre in catene. Corre all’ultima roccia. Si ferma, tentenna.
Mentre fugge, lo segue di corsa l’armato drappello. S’inabissa con rapido salto, più ratto del vento, dove più dirupata s’allarga la cava voragine. Quando gela l’inverno glaciale per freddi aquiloni e inonda la pioggia impetuosa i campi pesanti, divelto dai gioghi, sovente un albero frana trascinando le rocce all’ingiù con orrendo fragore. Con gemito lungo rimbomba la concava valle, atterrito ogni uccello schiamazza levandosi in fuga. Silvio, tratto dal peso per l’aria, precipita
in fondo, l’acqua squarciata ribolle.
Sgomente le stelle raggianti scolorano, ricopre la luna il chiarore di nube repente. Un tumulo s’erge accosto alla riva, sul tumulo incisi campeggiano i versi.
* * * Tellurem moveas, quisquis eris, cave.
Humano halat adhuc sanguine sordida, Ipsa hinc aura fugax territa pervolat. Hic quidam positus nomine Silvius, Vir quondam sceleris purus et integer, Pugna fortis eques, moribus at ferox.
Mendaci nimium credulus aemulo,
Quam primum penitus virginem amaverat, Transfigit miseram, patris et hospitem.
Poenas ne lueret, se nemore abdidit.
Desperans, patrio septus ab agmine, Rupes effugium morsque simul fuit. Alta mente, sagax, quisquis eris, pone: “Non vis, non rabies ulla potentior, Livor si una et amor pectora concitet”.
Chiunque tu sia, la terra non smuovere: ancora miasmi esala dal sangue d’un uomo, il vento fugace pertanto via vola atterrito. Qui Silvio giace, che probo ed immune da crimine si tenne per anni, in battaglia cavaliere gagliardo, ma d’indole fiera. Troppo credulo ai detti del vile rivale, la fanciulla diletta trafisse incolpevole, ospite in casa del padre. Insofferente dei ceppi, si diede alla macchia. In rupe scoscesa, braccato da patrio drappello, via di scampo e la morte trovò. Perspicace, rammenta, chiunque tu sia: “Furia brutale non c’è più funesta di quando si sfrenano amore ed odio nel petto”.
Panorama di San Cosmo Albanese dalla contrada Motër Mara.
INDICE Presentazione.................................................... pag. 5 Introduzione..................................................... pag. 7
Dedica................................................................ pag. 15 Prefazione.................................................... pag. 17
I . [L’amore]........................................................ pag. 22
II . [La festa]....................................................... pag. 28
III . [La guerra]................................................. pag. 34
IV . [Il ritorno]................................................... pag. 40
V . [Il brigante].................................................. pag. 46
VI . [Il santuario]............................................... pag. 54
VII . [La vendetta]............................................. pag. 60
VIII. [Il suicidio]................................................ pag. 68
Calabria